Gli strumenti per la “rieducazione del condannato”

Può sembrare un paradosso, ma ha più difficoltà a parlare del carcere proprio chi lo conosce meglio, vivendolo o avendolo vissuto da detenuto.

È una difficoltà che nasce non solo dalla sofferenza, che ogni esperienza di reclusione inevitabilmente genera, ma anche da una sorta di pudore: quel pudore che si coglie quando ci viene chiesto di raccontare ad altri la nostra vita, nei suoi aspetti più personali. Perché per il detenuto il carcere coincide con la vita e può finire con l’assorbirla integralmente, soprattutto quando non si ha la fortuna di avere all’esterno degli affetti che, con il loro sostegno spirituale e materiale, lascino accesa la fiammella di conforto, alimentando il pensiero o l’illusione di una vita “fuori”.

Eppure, per quanto difficile, parlare del carcere è per una persona detenuta, allo stesso tempo, una necessità, un bisogno ineludibile. Serve a dare un senso a ciò che si sta affrontando, a collocare i propri giorni e le proprie notti in una dimensione che, nonostante tutto, resta e deve restare pienamente umana.

L’uomo recluso è un uomo (sembra banale scriverlo, ma va ricordato anche questo) e comunicare la sua esperienza di segregazione ha lo scopo di ricordare agli altri uomini, ed a sé stesso in primis, che per quanti errori possa aver commesso, egli non è divenuto un brutto animale, ma conserva la stessa natura di coloro che continuano a vivere al di là delle mura che lo racchiudono. D’altra parte, ogni persona detenuta vive il suo stato in base al proprio modo di essere, alla propria irriducibile singolarità.

Certo, alcune caratteristiche sono a tal punto ricorrenti da poter essere considerate universali, indissociabili dalla condizione di carcerato. La prima di esse, quella che chiunque può comprendere, è la sofferenza. I significati che il termine “pena” assume in italiano vengono puntualmente appresi da chi trascorre il proprio tempo dentro una cella. Può essere una sofferenza meritata o no, grande o piccola, superabile o schiacciante, duratura o intermittente, solo fisica o anche morale, ma non esiste detenuto che non la avverta. Anzi, adattarsi e sopravvivere alla quotidianità carceraria significa essenzialmente trovare il modo di gestire questa sofferenza.

E nella ricerca di questo modo entra in gioco la individualità di ciascuno. Quel che ha sostenuto me nel rapportarmi alla pena della reclusione non necessariamente è identico a ciò che aiuta i miei compagni di detenzione ad andare avanti. Credo di poter dire, però, che anche in ciò esiste un aspetto comune: quanto più si è in grado di non considerare quella sofferenza fine a sé stessa, tanto più si riesce a cogliere un significato in quel susseguirsi di settimane, mesi ed anni, altrimenti implacabile e asfissiante.

Da qui la necessità, davvero vitale, che negli istituti penitenziari possano essere affrontati percorsi di studio, di lavoro, di attività creative. Sono questi gli strumenti attraverso cui la “rieducazione del condannato” può trasferirsi dal cielo della Carta costituzionale a quel piccolo spazio di terra in cui uomini e donne sono rinchiusi.

Infliggere sofferenza senza altro scopo che la retribuzione per un male commesso può essere utile se si tratta di spaventare delle bestie, ma non si addice ad una espiazione attraverso cui si persegua realmente l’obiettivo di consentire a degli esseri umani di emendarsi. Se viene illuminata da questo senso ulteriore, e dotata degli strumenti per coglierlo, la vita in carcere può allora essere non soltanto dolore. Può essere non soltanto disagio, esposizione ai soprusi (accade anche questo), difficoltà nel curarsi se si è malati, frustrazione dell’affettività, disumanizzazione. Può perfino divenire un percorso di riappacificazione di ogni detenuto con i propri fantasmi e con le proprie mancanze. Può essere occasione perché l’umanità del detenuto incontri quella degli altri che condividono lo stesso spazio: compagni di pena, personale di sorveglianza, operatori esterni che prestano la loro preziosa attività negli istituti di reclusione.

Del carcere io ho personalmente sperimentato entrambi gli aspetti, quelli terribili e quelli che hanno dato significato alla mia sofferenza: se ho conservato la mia dignità, lo devo esclusivamente a questi ultimi.

Antonio B.